Giugno, Los Angeles. Alle otto di mattina, nella hall del Mondrian Hotel sul Sunset Boulevard sono tutti bellissimi, già svegli da tempo, gambe flessuose e addominali scolpiti, aria di chi le cose quando le vuole se le prende: ti passano davanti, attraversano il decoro minimale dell’ambiente ed escono. In un angolo della sala c’è Pete Parsons che parla al telefono, molto concentrato, smacchinando con la posta sull’iPad. Faccio per salutarlo ma non alza nemmeno la testa. Questo pomeriggio la stampa vedrà all’E3, la fiera videoludica più importante al mondo, l’alpha di Destiny, cioè la versione provvisoria del progetto cui Bungie, lo studio che Pete dirige, lavora da parecchi anni. È il primo vero momento di giudizio collettivo, non di pubblico ma di addetti ai lavori, di un prodotto attesissimo a pochi mesi dall’uscita. Dopo avere realizzato la serie Halo per conto di Microsoft, cioè uno dei due titoli insieme a Tomb Raider a finire nei telegiornali il giorno di ogni uscita, Bungie ha intrapreso un’avventura di almeno dieci anni negli spazi aperti del Sistema Solare: è questa la durata del contratto con Activision per realizzare e tenere in vita un universo persistente di vastità e complessità inaudite, un grande gioco online come non se ne sono mai visti misto a un bellico in prima persona, il tutto fluido e accessibile per il grande pubblico. L’investimento economico di Activision supera i 500 milioni di dollari. Destiny è il videogioco più costoso di tutti i tempi.
Due mesi prima, Seattle. La sede di Bungie è a Bellevue, sobborgo in grande espansione a est della città, molto apprezzato per lo shopping. Il mall immenso e luminosissimo la mattina è popolato dalle milf con passeggino di ordinanza. Il commesso del punto vendita Tesla Motors cerca di coinvolgerle, forse per promuovere la mobilità elettrica, forse per altri fini. I loro mariti potrebbero serenamente essere gli acquirenti perfetti per un’automobile del genere, perché Seattle è la business city per eccellenza: nell’area ci sono Boeing, Microsoft, Amazon, Starbucks, T-Mobile, Expediae molti altri. Tra azionisti, CEO e dirigenti, la città ha una densità di ricchi tra le più alte del Nord America. L’edificio in cui sorge la sede di Bungie prima era un cinema con annesso bowling; lo spazio è enorme, aperto, con soffitti altissimi e grandi vetrate. Le scrivanie hanno le ruote: a seconda delle necessità, si creano nuclei di lavoro nel giro di mezz’ora spostando le persone con i loro computer dove serve. «Io non ho nemmeno un ufficio», mi dice orgoglioso Pete. Questo di non avere un ufficio è forse in parte un vezzo, ma è un tratto distintivo di alcuni nuovi capi di enormi aziende legate al digitale. Anche Reed Hastings di Netflix si vanta di non averlo, sostenendo che muoversi e non aspettare che le persone vengano da te è fondamentale. Altro elemento insolito: il primo posto che Pete mi porta a vedere è l’IT.
In qualsiasi ufficio in cui ci siano dei computer, e qui ce ne sono tanti, quelli dell’IT sono la destinazione di disistima, barzellette, frustrazione e insulti (la serie inglese di qualche anno fa The IT Crowd lo dimostra perfettamente). Ma qui non va così, almeno non ufficialmente. «Questa squadra gestisce centinaia di richieste tecniche al giorno. Senza di loro non potremmo fare niente di quello che facciamo», mi dice Pete mentre salutiamo il manipolo di nerd che rispondono alle esigenze dei circa 500 dipendenti dello studio. In fondo allo spazio dei tecnici c’è una porta. Dopo una piccola pausa cinematografica, Pete la apre con una soddisfazione visibile sul volto, e mi invita a entrare. Dentro ci sono quattro piccole postazioni in mezzo a una stanza con un grande muro di monitor davanti. È la sala di controllo di Destiny, e somiglia in piccolo a quella dei film americani dove alla fine la missione è compiuta, tutti tornano a casa sani e salvi, e la gente si abbraccia in camicia bianca con le maniche tirate su davanti agli schermi giganti. Qui al posto delle camicie bianche ci sono delle magliette di gruppi musicali e videogiochi, ma il senso non cambia. Un gioco online venduto in tutto il mondo ha utenti attivi 24 ore al giorno, ed è sempre il momento per una partita in qualche fuso orario del pianeta. La nuvola di server che gestirà il traffico di dati di Destiny è a Las Vegas, e in questo stanzino almeno due persone saranno sempre presenti per controllare che le cose funzionino. Quando l’anno scorso Maxis ed EA hanno lanciato la nuova edizione di Simcity, la cui fondamentale parte online non ha funzionato in maniera affidabile, impedendo di fatto agli utenti di usarlo, gli effetti sulla vendita e sull’immagine di prodotto e marchio sono stati pessimi. Le cose in questa stanzetta dovranno funzionare sempre.
L’idea di Destiny risale a quando qui si lavorava ancora alla serie Halo, titolo di punta in esclusiva per Microsoft e le sue console. Una piccola squadra ha cominciato a rimuginare sull’idea di un universo fantascientifico dove ambientare un nuovo titolo di combattimento e esplorazione in prima persona, dove sparisse la differenza tra offline e online, tra partita solitaria e collaborativa. Il primo ostacolo era quello della forma di quel mondo, cioè del suo immaginario: quanto fantascientifico, robotico, avventuroso e fantasy? Dopo una lunga ricerca iconografica, la squadra ha prodotto un’immagine che mostra un ambiente desertico, un’astronave a terra, due figure con abiti vagamente cavallereschi che scrutano l’orizzonte, e un grande felino seduto ai loro piedi. «Gli animali poi non ci sono stati, ma questa è l’immagine che ci ha fatto dire ci siamo: il gioco è questo», racconta Pete. Destiny in effetti è una space opera, ricorda in qualche misura la saga di Dune di Frank Herbert e ovviamente Guerre Stellari di George Lucas.
L’epica di Destiny comincia con il Viaggiatore, una forma di intelligenza superiore arrivata sulla Terra e capace di dare luogo a un’eta dell’oro: una fase di espansione culturale, economica e geopolitica in cui i pianeti sono stati colonizzati, abitati, fatti fiorire di attività umana. Poi l’influsso del Viaggiatore è venuto meno, e la recessione ha ridimensionato la civiltà terrestre. I giocatori interpretano il ruolo dei Guardiani, una genia di guerrieri che oggi ha il compito di combattere contro le forze del male, rappresentate da mostri soffianti e orridi di varia natura, per salvare il Sistema Solare dall’oblio nel quale sembra destinato a precipitare.
La struttura base del racconto è quella classica: felicità, turbamento della felicità, lotta per tornare alla condizione inziale, proprio come quasi tutte le storie occidentali dall’Antica Grecia in poi. Quello che si sa della trama nel dettaglio è poco di più, e non c’è bisogno di parlarne confusamente prima di poterla frequentare con gusto mentre si dipana. La caratteristica peculiare del gioco, quello che lo distingue da tante ambientazioni contemporanee, è la leggera malinconia che lo pervade. Il mondo di Destiny è un mondo in crisi, dolente, che deve riscattarsi, lievemente cupo e pieno di speranza, proprio come la fantascienza dei Sessanta e Settanta cui si ispira. Jesse Van Dijk, l’art director di Amsterdam che in passato ha disegnato anche gli ambienti algidi bluastri diKillzone, racconta che anche il vintage delle copertine di quei romanzi, i viraggi cromatici dovuti all’invecchiamento della carta, sono parte dell’immaginario costruito per Destiny. Insomma è un mondo in difficoltà, ma che rimane invitante. Due riferimenti iconografici forti sono stati il pittore polacco Zdzislaw Beksinski e il pittore ceco Peter Gric, entrambi specializzati in una pittura utopica e fantastica, tra il simbolismo di Böcklin e i corpi traslucidi di H.R. Giger. Alcune grandi strutture decadute diDestiny hanno un aspetto leggermente zoomorfo che ricorda l’auditorium di Renzo Piano a Roma. Qua e là ci sono nidi e reperti della civiltà aliena che sono parenti dei baccelli della saga di Alien. Non è escluso, visto l’arco narrativo previsto, che sia solo questa prima fase a contenere degli elementi più foschi, e tra qualche anno la saga sia destinata a cambiare sapore nel racconto e nell’estetica, mentre la battaglia avanza e cambia gli equilibri del Sistema Solare. La vista dei programmatori dalla balconata, dove un tempo la gente si affacciava a osservare le bocce che abbattevano i birilli sulle corsie di bowling, cioè centinaia di teste e monitor che fanno cose poco comprensibili, mi ha dato il senso dell’estensione del progetto ma non della direzione che prenderà. C’è anche la possibilità che, segreto industriale a parte, molte delle cose che vedremo nel futuro di Destiny non siano ancora state decise.
Oltre all’investimento economico e alla durata del progetto, Destiny ha la particolarità di essere un titolo ambizioso nella struttura. I giochi di combattimento in prima persona sono molto popolari, e le generazioni più giovani di giocatori ormai ignorano la storia di titoli come Call Of Duty per dedicarsi esclusivamente alle battaglie con altri utenti online. Destiny mescola un piano e l’altro, rappresentando l’esempio più muscoloso di una tendenza di questi ultimissimi tempi. In WATCH_DOGS di Ubisoft, mentre la storia ha un ruolo fondamentale e ci si muove in una dettagliatissima Chicago fitta di avvenimenti e personaggi, ci sono incursioni di altri giocatori che irrompono nella nostra partita per rubarci identità e informazioni, e vanno sistemati prima di poter proseguire. Non è male, sono momenti in cui si percepisce il senso della paranoia globale, ci si sente in qualche misura dei piccoli Snowden, ma non è un pilastro del gioco, e se non lo fai non succede nulla. Il primo vero titolo a sfondare in modo trasparente e magistrale, senza opzioni e menù, la barriera tra i divani dei diversi utenti è stato un prodotto piccolo e innovativo come pochi altri, opera del geniale Jenova Chen. «Journey è stato di grandissima ispirazione per noi», dice Pete quando glielo cito. E Journey è un piccolo gioco poetico realizzato da 12 persone in un ufficio minuscolo con vista su un parcheggio di Santa Monica. Quando un’industria è in grado di fare tesoro di innovazioni e creatività di giovani talenti, e dichiararlo serenamente nel realizzare colossi cento volte più grandi, vuole dire che è un’industria sana e in evoluzione. Anche in Destiny la presenza di altri utenti in alcuni momenti dell’esperienza di gioco non sarà opzionale né particolarmente centrale. Come nel mondo reale, in Jurney si incontravano sconosciuti durante un viaggio nello spazio aperto, una specie di gita in montagna. In Destiny, anche nella parte di gioco teoricamente offline, quando si raggiungono piazze o ambienti importanti si possono trovare degli altri: ignorarli o aiutarsi a vicenda per sconfiggere dei nemici è una scelta che spetterà al singolo.
Lo scopo del gioco è quello di vincere contro i nemici nelle architetture e negli spazi immensi di Terra, Venere, Marte e Luna (per ora). Oltre alla storia principale, ci saranno infinite missioni secondarie sia solitarie che collaborative. Come in tutti i grandi titoli online, per quanto questo rappresenti almeno in potenza un unicum visti investimento e ambizioni, il gioco nascerà all’uscita: è da lì in poi, con l’arrivo delle persone, che il suo mondo comincerà a vivere e trovare un suo equilibrio. I contenuti aggiuntivi saranno continui, mentre di tanto in tanto ci saranno dei pacchetti scaricabili più massicci, il primo dei quali uscirà già a dicembre. Quando gli chiedo di riassumere il suo obiettivo prima di uscire dalla sede di Bungie, Pete mi risponde: «Vorremmo cheDestiny stesse nella libreria accanto a Guerre Stellari o alPadrino». Non è poco in assoluto, ma per un gioco online è un’ambizione mai vista. Intanto il tema musicale di Destiny è stato composto con l’aiuto di Sir Paul McCartney.
I grandi giochi online sono mondi di grande successo, per quanto il loro pubblico sia quello e difficilmente arrivi ai numeri clamorosi di uno titolo in prima persona tradizionale. L’universo spaziale di EVE Online o quello fantasy molto più esteso di World of Warcraft hanno frequentatori assorbiti quasi completamente; pagano un abbonamento mensile per il loro passatempo, e sono molto redditizi per gli editori. Molti sviluppano una passione che confina con una benefica dipendenza, e parecchi di quei giochi finiscono per scoraggiare, dopo qualche anno, ingresso di utenti freschi e ignari delle dinamiche di un mondo avviato e sempre più ricco al suo interno. Destiny ha un aspetto più facile e leggero, ma punta a trascinare un pubblico molto vasto nella frequentazione assidua e prolungata per anni di uno spazio che di fatto richiede l’acquisto di qualche contenuto di tanto in tanto, di un nuovo gioco intero della saga ogni tre anni circa, e dà la sensazione illusoria di potere smettere quando si vuole. Non è come pagare l’abbonamento mensile, ma il concetto è lo stesso.
La storia di un mondo in crisi, con l’estetica nei romanzi Urania e Nord degli anni Settanta, dove si percepiscono insieme una malinconia cupa e un senso inebriante di possibilità, la solitudine dei grandi spazi e la partecipazione alle imprese collettive di salvataggio dell’umanità: riuscirà tutto questo a diventare un classico pop? La morbidezza e la giocabilità sono quelle immediate di Halo, sono per tutti, ma la storia e le dinamiche sono ricche, sfaccettate e ambiziose. All’E3, a Los Angeles a giugno, le prime reazioni della stampa e del settore sono entusiastiche. Il giorno dopo incontro Pete Parsons a pranzo. Sorride, è felice, e commenta: «Lo sapevo. Ne ero sicuro».
Destiny esce il 9 settembre in tutto il mondo.
Ecco Destiny, il gioco più atteso dell’anno è stato pubblicato per la prima volta su Wired
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